Histats

sabato 27 agosto 2011

The Secret - 30 years after


30 anni dopo i fatti noti.

Il baccano scomposto che imperava nella mensa, soprattutto durante il pranzo, aveva ormai lasciato il posto ad un silenzio familiare agli ospiti della clinica “Cielo azzurro”. Una quiete innaturale, spesso indotta o forzata, ma in ogni caso liberatrice, rassicurante. Il personale medico era intento a sistemare tavoli, sedie e tutti i pochi oggetti ritenuti innocui e divenuti poi prede di movimenti convulsi, piccoli raptus o gesti incondizionati di cui gli ospiti della clinica erano allegramente affetti. Qualcuno spazzava a terra, qualcun altro abbassava leggermente le tapparelle per agevolare una luce più soffusa all’interno dei grandi saloni, ma tutti sapevano bene che il peggio era passato. Se ne sarebbe riparlato a cena.
A quest’ora del giorno la maggior parte dei pazienti della clinica psichiatrica si trovava stipata nelle rispettive stanze, di modeste dimensioni senza dubbio, seppur curate e sempre pulite. Un paio di uomini giocavano a carte, riprendendo in mano una partita lasciata in sospeso nel momento in cui una dolce campanella aveva suggerito loro che il pranzo stava per essere servito. Altri fissavano con estrema attenzione un piccolo televisore sospeso a quasi due metri da terra, che trasmetteva una soap-opera di terz’ordine che mai avrebbe sperato in tanto consenso all’interno di una stessa abitazione. Nella sala grande, ad uno dei tavoli più ampi, sedeva invece un nutrito gruppo di pazienti, anche loro immersi in una sorta di ipnosi dalla quale sembrava non avrebbero mai più fatto ritorno. Erano tutti intendi ad ascoltare una storia.

In mezzo a loro si trovava un omino, minuto e di statura modesta, dotato di due occhi arguti come fiaccole ardenti lungo un’oscura galleria senza uscita. Aveva una settantina d’anni, ma quando parlava e gesticolava, sembrava rivestirsi di un manto fresco fatto di speranza e gioventù. Il sorriso ampio e contagioso era incorniciato da un pizzetto bianco come neve, e in testa aveva un’aureola di corti capelli slavati, selvaggi e indomabili dalla mattina alla sera. Il suo passatempo preferito era senza dubbio “parlare”, anche se molti giurano che sarebbe anche potuto essere “scrivere”, se solo fosse stato permesso ai pazienti di impugnare una biro o anche solo una matita. Qualcuno afferma che forse da giovane era uno scrittore, o qualcosa di simile; quel che è certo è che vi erano momenti circoscritti nella vita di quest’uomo in cui non si capiva nel modo più assoluto come poteva essere finito al “Cielo azzurro”. La sua fantasia non aveva limiti e le storie che raccontava avevano il potere di avvolgere l’ascoltatore e di condurlo per mano in sentieri misteriosi, fatti di boschi verdeggianti dai profumi esotici o di vie lattee popolate da bizzarri omini grigi. Forse era proprio questa tendenza sempre più frequente a varcare la fatidica soglia tra sogno e realtà, che gli assicurò un confortevole soggiorno tutto compreso in quella struttura d’accoglienza.

«…secondo una ricerca che feci molti anni fa insieme a degli amici, giunsi ad una conclusione sconcertante…» pronunciò l’omino ammiccando il suo pubblico, scupoloso nel rispetto dei dovuti tempi scenici. Fece poi per riprendere la parola, quando il suo sguardo volse oltre, posandosi sull’inconfondibile silouette di Elvira. Leggiadra sul pavimento a scacchi della sala come un orso polare su una sottile lastra di ghiaccio in primavera, Elvira aveva due spalle che sembravano uscirle direttamente da sotto le orecchie; la sua statura era ben oltre la media e spesso anche il timbro di voce tradiva la sua sessualità clinica. Di femminile aveva solo l’acconciatura, costituita da ondulati capelli neri che le avvolgevano l’aspro viso, raccolti dietro in una lunga coda da cavallo, che in testa ad una donna quanto meno discreta avrebbero fatto la loro signorile figura.
«Perdonatemi signori, ma sono desiderato dalla più affascinante infermiera dell’istituto.» Disse il piccolo narratore al suo pubblico; poi rivolto ad Elvira pronunciò a gran voce: «Desdemona! Contavo i secondi che mi separavano da te!»
Non era chiaro il motivo per cui Elvira venisse chiamata costantemente “Desdemona” da quell’uomo, ma una stranezza di quel tipo, nella clinica “Cielo azzurro”, passava subito in secondo piano.
«Venga dunque, è l’ora della sua pillola!» tuonò la donna, mentre aveva già afferrato l’uomo per un braccio per accompagnarlo qualche stanza più avanti. Dopo dieci minuti la commissione era svolta: il paziente aveva messo in bocca la sua pillola color avorio e l’aveva ingerita buttandoci dietro mezzo bicchiere d’acqua.
Elvira a quel punto lo congedò con un sorriso:
«Ora vada a riposare un pochino, signor Giuseppe!»

L’uomo non perse tempo, e di gran fretta fece le scale, si chiuse la porta della sua stanza alle spalle e come in preda a conati di vomito si mise la mano in bocca. Ne uscì una piccola poltiglia avorio, umida e luccicante. Il signor Giuseppe la fissò per qualche istante, ma subito dopo afferrò con la mano libera il comodino che affiancava il suo letto rifatto, e con un secco colpo di reni lo tirò a sé. Era un gesto, quello, che ripeteva ormai tutti i giorni da un mese a questa parte, da quando cioè cominciò a fare una cura “ricostituente” con la quale, gli avevano detto, avrebbe affrontato meglio la stagione influenzale ormai alle porte. Dietro al comodino c’erano tante palline color avorio incollate, ma non a caso o senza un criterio, anzi come a comporre una figura ben definita. Era un volto, il volto di uomo di cui si vedevano soltanto i grandi occhi indagatori. Il resto del viso era ricoperto come da una maschera: un rapinatore doveva essere, o un ladro. Perchè il signor Giuseppe componesse una tale figura con le sue pillole riciclate, nemmeno il più esperto psichiatra sarebbe stato in grado di dirlo.

Al piano di sotto “Desdemona” guardava nella stanza del personale la soap-opera di terz’ordine ormai alle battute finale, quando per la seconda volta in pochi minuti sentì di nuovo uno stridio, come di un mobile che strisciava sul pavimento, e per l’ennessima volta si era ripromessa che il giorno seguente, se fosse accaduto di nuovo, sarebbe andata a scoprire di cosa si trattava.

mercoledì 24 agosto 2011

Mattino di primavera


In una casa di campagna viveva una vecchietta, che tutti i giorni si alzava mesta, di buon'ora, come faceva da quando era bambina. Consumava una modesta colazione e si recava subito nel campo dietro casa, dove da tempo cercava in tutti i modi di far crescere i fiori e le verdure che aveva seminato alcune settimane prima.
Ogni giorno l'impegno aumentava, così come i dolori che l'età aveva in serbo per lei, ma i fiori stentavano a sbocciare, e i frutti della terra a nascere. Qualche giorno l'anziana vecchietta tardava a cominciare il suo lavoro, perché abbisognava di un riposo un po' più lungo del solito; però affannato, mai sereno e davvero ristoratore.

Una bella mattina di primavera il sole era da poco spuntato dalla collina a est della casetta, e la piccola vecchietta aprì gli occhi, più vispi del solito. Con grande prontezza fu in piedi sulle sue pantofole consumate e si diresse rapida nel cortile di casa, senza neanche badare a fare colazione. In poco tempo aveva accudito metà del suo orto, e mentre soddisfatta si guardava indietro, notò un timidissimo bocciolo ai margini del verde prato. Tutta baldanzosa saltellò verso di esso e, guardandolo più da vicino, fece un gran sorriso che le riportò in vita tutte le piccole e profonde rughe collezionate in un'intera lunga vita. Era felice.
Si guardò intorno e altri fiori era spuntati.
Un'invisibile lacrima le rigò il viso e per un'attimo un'ombra di malinconia prese il posto della gioia; ma fu solo un istante, già finito, già dimenticato.

La vecchietta tornò così a sorridere come quando era bambina, avendo ormai capito che quella mattina, dal suo letto, non era mai scesa.

Dicono di me

“Ero seduto sulla mia amaca preferita, ascoltando un po’ di pop su audiocassetta e fumando una nazionale. Giocherellavo con del das rimastomi incollato tra le dita, residuo di un’appagante giornata di lavoro, quando ad un certo punto mi esce uno starnuto biblico. Su due piedi volevo scartarlo, ma per l’amor di Me Stesso, non me lo sarei perdonato. Ecco tutto, di più non saprei dire.” (DIO)

“Chi?” (Alfonso Signorini)

“Per me, numero uno!” (Dan Peterson)

“Lui lo negherà fino alla morte, ma una volta sono quasi riuscito a convincerlo a farmi fare un massaggio ai piedi con dell’olio aromatizzato al cetriolo barzo. Ve lo giuro!” (Elton John)

“Accattivante! L’ideale per serate con gli amici all’insegna del divertimento, oppure per fantastici pomeriggi di relax. Un’occasione imperdibile!” (Giorgio Mastrota)

“Gwwwooouuurr… Rreoooarr… Aauuuurrrhhgrrhhooooarrr!” (Orsetto polare Knut)

“Un tipo tutto sommato positivo, ma va comunque tenuto d’occhio. I più anonimi si rivelano sempre i più pericolosi…” (Batman)

“Poco ce magni.” (Hannibal Lecter)

lunedì 22 agosto 2011

Il primo comandamento

Il primo comandamento nelle tavole dei Blog è quello di scrivere il primo post come fossimo ad una seduta psichiatrica di gruppo, ovvero alzandoci in piedi, dichiarando il proprio nome e il problema che ci assilla.
Avere un blog può essere il problema stesso, e il nome è scritto in questa pagina mi sembra, da qualche parte.
Manca da dichiarare lo scopo. Quello per ora è fumoso, confuso.
Quando lo chiuderò potrò riflettere sul perché quel giorno di agosto, invece di fiondarmi dentro a una fontana per sfuggire ad afa e umidità, ero schiavo di un condizionatore e di un Blog che mi chiedeva di scrivere questo benedetto primo post...


Un saluto a tutti voi!